Martin Cervelli mi ha dato l’occasione di parlare di “Mandibole” e di molto altro nella stimolante intervista per la rubrica “Musica e Disincanti” del suo blog martincervelli.blogspot.it. Le domande erano attente e intelligenti, le risposte non so…so che mi sono divertita a rispondere! :::)
Quali sono i pregi di Cristina Nico?
«Dio bono, cominciamo bene! In questo momento ogni mio pregio mi sembra abbia il suo corrispettivo in un difetto e viceversa. Comunque ci provo: il sense of humour (quando sono in buona), una discreta onestà (che non ha nulla a che fare con la coerenza), l’istinto di sopravvivenza (che non vuol dire saper vivere), una buona immaginazione (o sono solo allucinazioni?)».
…e i difetti?
«A volte vedo prima gli aspetti negativi della realtà (il che vuol dire però gioire alla grande di fronte alla bellezza anche di piccole cose). Mugugno parecchio. Sono piuttosto schizofrenica, mi butto giù un sacco oppure mi esalto».
Da poche settimane hai pubblicato il tuo primo disco, “Mandibole”. Perché dovremmo ascoltarlo?
«Perché ci ho investito i miei risparmi. E perché è un bel disco, suvvia».
Il disco si apre con “Creature degli abissi” che ha la struttura di una ouverture, quasi fosse l’inizio di un concept album che poi alla fine non si sviluppa, almeno non completamente. Mi sbaglio?
«È un’ouverture, è vero. È uno dei pezzi che ho scritto quando gli altri inclusi nel disco erano già stati composti. Più che alludere ad un concept, è una dichiarazione poetica, una sorta di lettera di presentazione su quello che ci si può aspettare da me e quello che non posso fare attraverso la mia musica e il mio modo di essere».
In un verso di “Formaldeide” parli di <artisti occidentali annoiati e stanchi>. E quindi dove possiamo trovare artisti attivi e pieni di energia?
«Chissà… forse dove c’è meno disincanto, dove c’è più speranza di creare qualcosa attraverso delle idee forti di cambiamento perché magari la libertà non è una cosa scontata. Penso ad un artista (visivo) come il cinese Ai Weiwei, che da una parte sa sfruttare i media, innestarsi sul percorso già battuto dall’arte concettuale occidentale. Ma la pelle l’ha rischiata davvero per denunciare la mancanza di libertà e informazione nel suo paese e, per chi lo conosce, i messaggi delle sue opere sono delicati e potenti assieme».
Mi ha fatto riflettere l’incipit di “Cocoprosit”. <Non sprecare il tempo in cose necessarie ma inutili che non nutrono il tuo spirito>. Mi sono divertito a elencarne un po’. Possiamo sapere quali sono invece le cose che tu consideri inutili ma necessarie?
«Credo ce ne siano tante di cose ‘inutili ma necessarie’. Prendi il lavoro: sono poche le persone che riescono a vivere facendo un mestiere che le appaghi davvero. Però portare a casa la pagnotta è una necessità, no? Solo che non si può pretendere dal lavoro una piena soddisfazione di bisogni più profondi, chiamiamoli pure spirituali o anche semplicemente morali, emotivi, affettivi. Non voglio sminuire l’importanza del lavoro, tutt’altro, ma credo ci siano delle false mitologie in merito, accresciute dal fatto che molti non lavorano o si trovano a lavorare in condizioni assurde, che creano ancora più frustrazione e false aspettative…».
Il concetto viene ribadito in “Giorno dopo giorno” quando dici di non perdere energie e di concentrarsi su una sola via. Tu hai trovato la tua via oppure i testi delle canzoni sono lo specchio di uno tuo smarrimento esistenziale?
«La mia via è lo smarrimento esistenziale!».
Che significato ha la lucertola di “Cocoprosit”?
«È un animale reale e simbolico assieme. È la lucertola che realmente ho visto spesso sulla tomba di mia madre e a cui ho dato un ruolo di tramite, di messaggero fra il mondo dei vivi e dei morti, della luce e delle ombre. Da bambina le lucertole mi affascinavano perché le vedevo palpitare, per via di quel movimento respiratorio rapidissimo, sembra che si gonfino e si sgonfino continuamente, come dei piccoli mantici».
Le “Mandibole” sono un accessorio meccanico che non ha distinzione di classe, non credi?
«Sì. È un accessorio meccanico, primitivo, che ci accomuna a quasi tutti gli altri animali. Ci servono per mordere, masticare, lacerare, urlare… a volte anche il nostro modo di assimilare concetti, informazioni è un po’ meccanico. Inghiottiamo quello che ci mettono in bocca, come quegli uccellini che stanno a fauci spalancate in attesa che i genitori le riempiano di cibo predigerito. Ma prima o poi bisogna imparare a scegliere il ‘cibo’ giusto, masticarlo e digerirlo».
Sei meteoropatica?
«Un poco… il mio umore è piuttosto ‘nivuro’ in quelle giornate in cui il cielo sembra essere pesante, appeso, in attesa di scaricarsi in pioggia. Ma in “Meteoropatia” prendo anche un po’ in giro coloro che si beano di certi atteggiamenti post-esistenzialisti, me stessa in primis».
Nel disco si affrontano e si confrontano un “io” molto personale e un esterno. È il tuo mondo contro quello che c’è al di fuori?
«Non direi ‘contro’: c’è il mio mondo che cerca di incontrare quello esterno, anche se a volte tende a rintanarsi in se stesso. Nelle canzoni di “Mandibole” parto spesso da un ‘io’ che poi diventa ‘noi’, in questo senso credo sia un disco tanto lirico quanto corale. Non amo le visioni dall’alto, mi sono più congeniali quelle dal basso e dall’interno».
Perché hai scelto di chiudere il disco con la cover di “Mother stands for comfort” di Kate Bush?
«Perché volevo includere un omaggio a un’artista che forse non è tra le mie prime ispirazioni ma che ammiro molto, anche se le sue sonorità sono apparentemente lontane dalle mie: sia io che Tristan siamo più influenzati dalle sonorità degli anni Sessanta e Settanta. La cosa curiosa è che nel fare la cover di “Mother stands for comfort” abbiamo preso un pezzo degli anni Ottanta e ne abbiamo fatto un pezzo anni Novanta!».
Sei nata a Genova ma so che le tue origini sono più lontane… Cosa ti hanno lasciato, a livello umano e naturalmente musicale?
«Tre nonni su quattro erano calabresi. Terre aspre che improvvisamente si aprono in piane verdissime, fiumare limacciose dove vivono grandi granchi, gli incendi che di notte illuminavano i dorsi dei monti… e poi le spiagge di Capo Vaticano, quasi selvagge prima dell’arrivo massiccio del turismo: queste le ‘visioni’, forse un po’ bucoliche, che si sono impresse nei miei paesaggi interiori, che hanno composto il mio Sud come luogo mentale e quasi metafisico. I canti liturgici e le musiche eseguite dalle bande di paese nelle processioni poi su di me avevano grande suggestione: nel ritornello de ‘La litania dei pesci’ le voci femminili del coro richiamano quella vocalità particolare delle donne che eseguivano i canti alla Madonna nelle processioni. Però nelle mie radici c’è anche la memoria della malinconia, della povertà, del disagio patito dai miei nonni e zii migranti».
Come si fa ad essere cantautrici a Genova? Non trovi che il passato della “scuola genovese” sia ingombrante e che inevitabilmente si tenda a fare confronti con il passato?
«Certo, è un passato importante. Ma le cantautrici di questa nuova ondata genovese secondo me hanno seguito percorsi che si spostano un po’ dal solco della vecchia scuola, sia per sonorità che per modalità di scrittura, anche se c’è grande rispetto del passato. Forse anche perché di donne cantautrici, ahimé, è rimasta poca traccia. In un certo senso siamo potenzialmente più libere dei colleghi maschietti».
Hai dei riti precisi nella scrittura delle canzoni?
«No, a volte ho una frase o un’immagine che comincia a girarmi nella testa, altre volte parto da un riff di chitarra o un’armonia. Mi son accorta che spesso gli spunti arrivano in maniera inconscia da conversazioni noiose e da pasti consumati in fretta».
Secondo te le donne hanno più sensibilità nello scrivere canzoni?
«Ma no, non credo proprio. Credo, questo sì, che ci sia una sensibilità leggermente diversa, ma niente di fisiologico. È solo questione di educazione, di ruoli sociali, che portano ancora ad esprimerci e filtrare le nostre emozioni e i nostri pensieri in modo un po’ diverso dagli uomini. Cosa che magari finisce per portarti ad essere estremamente lirica e intimista o molto incazzata e dirompente!»
Se potessi vestire per un giorno i panni di un musicista chi sarebbe e perché?
«Un bravo pianista classico, che sa leggere la musica».
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